Categoria: Racconti

Il mio Canto di Natale

di Maria OrzaMarley's_Ghost_-_A_Christmas_Carol_(1843),_opposite_25_-_BL

Era il 24 dicembre, la gente si preparava per l’indomani, il giorno di Natale. I bambini non vedevano l’ora di scartare i regali ma un’anziana parrucchiera, la signora Maria nel paese di Fosdinovo, non la pensava come gli altri.

Maria era una signora molto severa che pretendeva dalle sue dipendenti massima serietà e precisione, senza mai accettare alcun piccolo cedimento.

Tutte le sue dipendenti, tranne una, la odiavano. Non sopportavano il fatto che fosse così dura e spesso poco comprensiva.

Costei si chiamava Esmeralda, un tempo erano amiche per la pelle, poi la loro amicizia si era affievolita sempre di più, ma lei provava ancora tenero affetto per la signora Maria.

Erano le 19:30, era l’ora di chiudere il negozio per ritornare a casa e aspettare i regali.

– Buona serata, ragazze!

– Buona serata a tutte – rispose Esmeralda alle parrucchiere.

– Buona serata anche a te, Maria.

– Sì va bene, grazie, ora puoi andare – rispose Maria con tono arrogante, come se non le importasse.

Fece la strada di tutti i giorni per ritornare a casa.

Si intonavano canti di Natale, c’erano alberi che si illuminavano, bambini che giocavano con la neve fresca.

Mentre la signora Maria passava di lì, pensava: “Mah, che ci trovano tutti in questa festa stupida?”

Tornata a casa, si sedette sulla sua poltrona con una tazza di tè caldo fra le mani.

Ma aveva una strana sensazione, come se qualcuno la stesse guardando.

Alzò gli occhi e vide che il lampadario si stava muovendo.

– Cosa sta succedendo?

A un certo punto tutto intorno a lei tremò, il tavolo, le sedie, il suo bicchiere…

Vide spuntare dalla porta lunghe catene con un intrico di pettini, spazzole e pennelli.

Poi apparve una signora che aveva il corpo fasciato da catene.

– E tu cosa ci fai qui? – disse Maria spaventata

– Non dovresti essere morta da un pezzo?

– Aaaaah stai zitta, non parlare. Sono Daniela, una tua vecchia cliente, ti ricordi, eh?

– Santo cielo, certo che mi ricordo di lei, ma io…

– Zittaaaaa… non devi parlare, ascoltami bene, questa notte ti verranno a trovare nel sonno tre fantasmi, quello del tuo passato, del tuo presente e del tuo futuro.

Svanì nel nulla e lei si ritrovò nel letto. Fece un sorriso, convinta che fosse solo un incubo, quando improvvisamente vide una scia di vari colori per terra che si dilungavano, così scese dal letto per vedere da dove provenisse.

– Ehi!

Maria fece un salto per la paura. Chi aveva parlato era uno strano ragazzo, con un pennello da tinta in mano dal quale gocciolavano vari colori come il bruno, il biondo, il rosso e tanti altri.

I suoi piedi non appoggiavano a terra ma lui era sospeso per aria.

– Io sono il fantasma del tuo passato, dammi la mano!

– Non vorrai passare dalla finestra, vero? Io non so volare!

Agitò il suo pennello magico e a un tratto i colori lo spinsero in aria così da farla volare.

– Dammi la mano – disse Passato.

– Wooooo…aaaaa – stavano volando veloci.

Partirono per la città nativa di Maria.

– Ehi, la mia scuola, la mia città…

– Ora ti porto dentro la tua scuola…

Entrarono nel laboratorio di parrucchiera, Maria e i suoi compagni stavano facendo delle meches mentre la prof. raccontava alcune cose e spiegava.

– Quanti bei ricordi…- disse Maria con aria entusiasta e pensierosa.

Era con le sue compagne, parlava e scherzava mentre lavorava.

Non vedeva l’ora di ritornare a casa per preparare le valigie e partire per la Puglia dai suoi parenti. Per un attimo il fantasma le fece vedere quando Maria era ancora la migliore amica di Esmeralda.

– La mia Esmeralda… Quanto mi manca, ti prego, non voglio più vederlaaaa!

Così scomparve e lei si ritrovò nel letto che dormiva. Si svegliò di colpo – Che incubo, se ne sono andati?

Vide una porta luminosa che si spostava da una parte all’altra, incuriosita si avvicinò e sentì il rumore di phon e caschi. Entrò e vide una persona voltata dalla parte opposta.

– Oh, chi si vede! Io sono il fantasma del tuo presente –

Anche lui, come gli altri fantasmi, era molto particolare… Se ne stava seduto su una poltrona da parrucchiera altissima in un salone dove phon, caschi e spazzole si muovevano automaticamente.

Aprì un portale dal quale le mostrò tutto quello che stava accadendo in quel momento.

– Beh, e allora, cosa c’entra questo?

– Guarda bene e poi capirai.

Vide Esmeralda che stava preparando da mangiare con i suoi parenti .

– Come vorrei che ci fosse anche Maria, come i vecchi tempi…- Maria si fermò un attimo a pensare a Esmeralda e al suo passato.

– Dai, vedrai che se la starà spassando, poi lei è felice così.

La signora Maria ci rimase un po’ male e vide che a nessuno importava di lei.

– Ora capisci?

– Sì…- rispose Maria con le lacrime agli occhi.

– Ma ho sempre fatto tutto per gli altri e perché dovrei essere ripagata così?

– Pensa bene a quello che fai.

– Ti prego non ne voglio più sapere, riportami a casa.

Così la riportò subito a casa, e come sempre si ritrovò a letto, con le gambe rivolte verso il pavimento.

– È davvero così che mi vedono le persone? Non voglio, devo cambiare assolutamente, chissà cosa mi succederà nel futuro…

Apparve così la sosia di Esmeralda, vestita dark, con i capelli lunghi e davanti al viso, neri come le tenebre con uno shatush viola acceso, vestita di nero e borchie appuntite.

– La tua prepotenza ha trasformato Esmeralda in una persona davvero maligna, sei pronta per vedere il tuo futuro? – disse con voce cupa e spettrale.

– Sì, sono pronta.

Si aprì un varco e un vento velocissimo le portò in una via buia e isolata. C’era all’angolo di un negozio chiuso e sbarrato, una persona anziana, incappucciata per il freddo con un bicchiere in mano e le dita cadaveriche. Il viso non si vedeva perché aveva un cappello che le copriva la faccia.

– No, no, non dirmi che sono io! – urlò disperata.

– Sì, sei proprio tu, nessuno è venuto più a farsi i capelli nel tuo negozio e le tue dipendenti si sono licenziate, così tu sei andata in fallimento e hai dovuto chiudere il negozio per i pochi soldi che avevi e le tante tasse da pagare. Perciò ti sei ritrovata così (indicò con la mano la signora che faceva l’elemosina).

– E Esmeralda che fine ha fatto?

– Vieni, ti faccio vedere.

La portò in un negozio di parrucchiere dove erano accese le luci dell’insegna e si sentiva la musica da metri di distanza. All’interno c’era Esmeralda con le dipendenti che si erano licenziate, lei era diventata titolare e non era più quella di una volta.

– Ma cosa ci fa Esmeralda in un altro negozio con le mie dipendenti?

– Ha aperto un negozio tutto suo e come vedi ha fatto successo. È diventata perfida e antipatica proprio come te.

– Aveva proprio ragione Maria a comportarsi così, chissà dov’è? Ahahahah, non mi interessa, povera vecchia.

Sentirono parlare Esmeralda e Maria rimase sconvolta.

– No, no ti prometto che cambierò, non può andare a finire così, non lo posso permettere, voglio morire pensando al bene che ho fatto, ti prego non farmi vedere più niente, voglio tornare a casa e cambiare tutto di me.

– Spero che ti sia stato di lezione, ricorda che ogni cosa che fai ora resterà per sempre.

– Grazie, ne terrò conto.

Cadde dall’alto verso il letto, ormai era mattina e lei, presa dall’entusiasmo, si vestì di fretta. Uscì di casa per comprare dei regali per le sue dipendenti e una cosa molto speciale per Esmeralda. Prima di tutto aumentò lo stipendio a tutte, poi sapendo che a Esmeralda piacevano i libri, le comprò l’ultimo della sua serie preferita.

– Buongiorno a tutti! E Buon Natale!

– Stai bene? Cosa ti è preso?

– Questo è per te, questo è per te, questo è per te e questo è per te, Esmeralda – consegnò tutti i regali alle sue dipendenti e per ultima a Esmeralda.

– Grazie, davvero, non so cosa ti è preso però ti ringrazio, veramente, ti voglio tanto bene – si abbracciarono.

– Ora siete invitati tutti a casa mia!

Applaudirono tutti e andarono a casa sua. Quel Natale rimase nella mente di tutti. Maria cambiò totalmente e non ritornò mai più alle sue vecchie maniere.

 

Un nuovo caso per Giulia

di Pastorini Giulia

 

Mi ritrovai ancora una volta sulla mia poltrona turchese sorseggiando una tazza di thè al limone, osservando attentamente fuori dalla finestra i fiocchi di neve che cadevano sopra la mia macchina nera e che creavano un interessante contrasto. Me ne stavo vicino al camino, al caldo sotto una coperta di lana color tiffany. A un tratto la mia gattina Serafina attirò la mia attenzione giocando con il filo del tappeto, che appunto si era sfilato. Giusto poco dopo aver visto quella scena, il telefono squillò, così mi dovetti alzare a malincuore, spostai la coda di Serafina. Non volevo sgridarla, dato che la vedevo impegnata a cercare di togliere quel filo dal tappeto. Mi avviai nel corridoio verso il telefono che non smetteva più di squillare, pensai dentro di me a chi poteva essere. Arrivai finalmente al mobiletto dove era appoggiato il telefono e alzai la cornetta.

Dalla voce sembrava una persona che aveva appena visto un fantasma, era agitata, non si sentivano bene le sue parole, ma capii che si trattava di qualcosa di grave. Cercai di fargli qualche domanda per capire chi fosse e dove abitasse ma fu tutto inutile.

Buttai giù la cornetta e in fretta e furia chiamai la centrale di polizia dove lavoravo, detti loro il numero di telefono della persona che mi aveva chiamato, e in meno di un minuto riuscirono a rintracciarlo.

Andai in camera, mi misi la divisa più velocemente possibile, salutai la mia gattina, e nonostante la neve riuscii a far partire la macchina e andare in fretta alla centrale. Arrivai a destinazione con la camicia mezza abbottonata e una scarpa senza i lacci, che si erano sfilati rimanendo chiusi nella portiera della macchina, ma nonostante questo disordine ero pronto. Andai dagli altri poliziotti, e mi dettero tutte le informazioni che erano riusciti a raccogliere. Si trattava di una certa Lady Victoria trovata morta. Si sospettava che fosse un omicidio. La vittima era stata trovata in cucina con ben 50 coltellate in tutto il corpo e con una corda legata attorno il collo. La persona che la aveva trovata in queste condizioni era appunto la persona che mi aveva chiamato, ovvero il suo maggiordomo, Louis Tomlinson, che poco dopo aver telefonato era svenuto. Presi la macchina insieme al mio caro amico e anche bravissimo poliziotto Justin Brown e andammo sulla scena del crimine, una ricca casa di campagna.

Scendemmo dalla macchina dopo aver discusso a lungo su chi potesse essere stato a fare una cosa così atroce. Con un bel respiro entrammo e la visione fu scioccante… la crudeltà. La povera Lady Victoria in terra in una pozza di sangue. Non aveva più le unghie delle mani, perché aveva lottato per la sua vita. C’era sangue da tutte le parti, anche sul soffitto e le unghie furono ritrovate persino nella fessura di un cassetto. Lady Victoria aveva una mano quasi staccata dalle coltellate.

Vennero i medici dell’obitorio, le chiusero gli occhi verdi, che avevano perso la loro lucentezza, e la coprirono con un telo bianco, ma non servì a molto dato che poco dopo il telo divenne rosso, intriso da tutto quel sangue che ancora fuoriusciva.

Con tanta pazienza e voglia di fare ci mettemmo subito ad investigare.

Nel frattempo riuscirono a risvegliare il maggiordomo Louis. Dopo essersi ripreso andò ad avvisare tutti i servitori e i familiari tra cui il marito Howard Malik, la cameriera Taylor Shaw, il giardiniere Michael Horan, la sorella della vittima Eleonor Mendez e la migliore amica della vittima, Kayla Zedda.

Rimasero scioccate anche loro dalla notizia e chiesero giustizia ai poliziotti. La polizia e tutti gli investigatori cominciarono a fare domande alle persone che conoscevano di più la vittima. Cominciarono da Louis Tomlison, il maggiordomo.

Non disse molto, solo che l’aveva trovata morta in cucina e che poco dopo era svenuto. I poliziotti non pensarono che fosse stato lui per due semplici motivi: il primo era il suo gran cuore, per il quale era noto a tutti, il secondo era che non avrebbe mai ucciso in quella maniera efferata. Howard Malik, il marito, il maggiore sospettato, tirò subito su la testa senza neanche una lacrima. Il viso era completamente asciutto come se non avesse mai pianto. La cameriera Taylor Shaw rimase immobile, non batté nemmeno un ciglio, ma grazie all’intervento di una psichiatra riuscì a dire che il marito e Lady Victoria litigavano spesso per sciocchezze. Il giardiniere Michael Horan quel giorno non c’era, e a dire la verità mancava da una settimana circa, perché aveva problemi in famiglia. La sorella della vittima Eleonor Mendez, sapeva cosa stesse passando la sorella col marito, e disse con certezza che era a conoscenza di chi fosse stato… ma rimase zitta.

La migliore amica Kayla Zedda, aveva anche lei un’idea di chi potesse essere stato ma rimase zitta, e si mise vicino a Eleonor a confabulare.

Il poliziotto, dopo aver sentito tutte le versioni dei familiari e testimoni, incominciò a elaborare chi potesse essere stato, anche se era piuttosto evidente. Il poliziotto decise di aspettare l’analisi delle impronte digitali e di tutte le altre tracce del dna. Pochi giorni dopo arrivò il risultato e in effetti il dna non era solo quello della povera Lady Victoria, ma anche di un’altra persona sconosciuta, che non era della famiglia.

Cominciarono le ricerche per trovare l’assassino, e venne fuori il nome di un certo Liam Pain, molto conosciuto nella zona per la sua cattiva fama, già stato in carcere parecchie volte. Era stato rilasciato con cauzione da circa una settimana, ma era stata una pessima idea… cercarono di rintracciarlo: Liam Pain, età 43 anni, corporatura robusta, capelli neri, occhi sul marroncino. Lo ritrovarono in un angolo in una strada chiusa per lavori in corso ormai da mesi. Lo trovarono in uno stato pietoso: il colore della pelle era giallastro e gli occhi erano rossi con tutti i capillari scoppiati, sulla maglietta si potevano notare tracce di sangue. L’uomo era incosciente e a malapena si reggeva in piedi, notammo che aveva i pantaloni strappati e sporchi di sangue.

Chiamarono un’ambulanza e poco dopo cercarono di curarlo al meglio, anche se ormai si poteva fare poco.

I poliziotti vedendo che Liam stava per morire cercarono di passare al sodo e farlo parlare. Le poche parole che disse furono: “ L’ho uccisa io, la amavo troppo, e non volevo che continuasse la relazione con il marito, l’ho uccisa così staremo per sempre insieme su nel cielo”.

Chiuse gli occhi e se ne andò verso il cielo anche lui.

Il caso fu chiuso… un altro poliziotto disse: “Perché allora tutte le persone della casa avevano incolpato il marito?”

Lo stesso poliziotto rispose: “Paura, solo per paura di morire anche loro, sapevano chi era stato ma avevano paura. Il marito soffriva in silenzio, sapeva che prima o poi sarebbe finita così.”

Il caso fu chiuso con tanta sofferenza e tanta voglia che tutto questo non fosse mai successo. Cercammo di incoraggiare i familiari, e esausti tornammo a casa, contenti di aver risolto il caso.

Lady Victoria rimarrà sempre nel cuore di tutti.

Ritornai a casa e l’unica cosa che feci fu tornare dalla mia gattina Serafina, raccogliere i lacci delle scarpe nella portiera e sedermi su una sedia per raccontare il caso alla mia famiglia.

Le storie dipinte

Insieme all’insegnante di Lettere, abbiamo reinventato in classe le storie di dipinti famosi. Io ho pensato di riscrivere la vicenda di Cecilia Gallerani, ovvero la “Dama con l’ermellino”, dipinta da Leonardo da Vinci fra il 1488 e il 1490.

 

LA DAMA CON L’ERMELLINO, LEONARDO DA VINCI

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di Maria Orza

Ogni mattina, una fanciulla di nome Cecilia Gallerani, proveniente da una ricca famiglia, passeggiava sulle rive del Gargano, a Peschici.

Era una ragazza colta, ingenua e di bell’aspetto.

La conoscevano tutti in paese ed era molto amata, soprattutto dai giovani, ma a lei non interessava, amava solo stare in mezzo alla natura e leggere.

Le piaceva passeggiare sulla spiaggia al mattino presto, il rumore dell’acqua salata del mare che sfiora la sabbia dorata, il sole che accarezza la superficie, i toni caldi dell’alba e la brezza che sussurra alle orecchie.

Una mattina, mentre passeggiava come al solito, un ragazzo che da molto tempo la guardava, le si avvicinò pian piano.

– Salve.

– Salve, vi conosco?

– No… ma da molto tempo vi osservo tutte le mattine, siete molto affascinante, lo sapete. Mi piacerebbe portarvi in un luogo bellissimo, fidatevi di me…

– Non saprei, non vi conosco…

– Ve ne prego.

– Va bene, però devo fare presto ritorno.

– Certo, non ne dubitate.

Il giovane Guglielmo la portò in un posto che la fanciulla non aveva mai visto, lontano dalla spiaggia, ma molto bello. Era un giardino fiorito, ben curato, con bellissime sculture e opere d’arte.

– Vi piace?

– Stupendo! Adoro posti come questo.

– Lo sapevo, per questo vi ho portata qui.

– Ma è vostro?

– Non esattamente.

– Come?

– Io sono Guglielmo, il garzone di bottega del pittore Leonardo da Vinci, di sicuro lo conoscete.

– Certo, lo conosco, un tipo strano ma mi piacciono molto le sue opere.

– Venite con me, ve lo farò conoscere.

– Va bene.

Dopo che il ragazzo le presentò il grande artista, tornarono alla spiaggia e si salutarono.

La mattina dopo si incontrarono di nuovo e la fanciulla, incuriosita, chiese al ragazzo di riportarla al giardino.

Quando arrivarono, Leonardo mostrò i suoi dipinti a Cecilia e le raccontò la loro storia.

Dovete sapere che Cecilia era sempre accompagnata da un simpatico ermellino. Questo incuriosì molto il ragazzo, e gli venne in mente di ritrarla.

– Vi andrebbe di fare la modella?

– Perché?

– Sapete, la vostra immagine mi incuriosisce, mi piacerebbe dipingervi con il vostro ermellino insieme a Leonardo.

– Acconsento.

I genitori di lei non sapevano nulla, però da tempo avevano notato che la fanciulla era diversa, era molto più felice e spensierata, cosa che non succedeva da tempo.

Ogni tanto le chiedevano cosa le stesse succedendo e da dove provenisse tutta la sua allegria.

Lei rispondeva sempre allo stesso modo, negando che le fosse capitato qualcosa di speciale.

Non voleva dir loro cosa stesse succedendo per il timore che non l’avrebbero più fatta uscire.

Il giorno dopo andò da Leonardo da Vinci accompagnata dal garzone e si preparò per essere dipinta.

Ogni mattina fece la stessa cosa, per un anno intero.

Passavano i giorni e l’opera prendeva forma.

Cecilia parlava molto con il ragazzo ed erano diventati quasi migliori amici.

Era attratta da lui e anche lui lo era.

Arrivarono al punto di fidanzarsi, ma tutto all’insaputa dei genitori della fanciulla.

– Perché non glielo dite? Forse approverebbero.

– No, ho troppa paura.

Un giorno però la ragazza decise di rivelare ai genitori tutta la verità e restò veramente sorpresa dalla loro reazione.

– Perché non ci hai detto niente? Siamo felici che tu abbia trovato qualcuno che sappia renderti felice, figlia nostra.

– Grazie, pensavo al peggio, ecco perché non vi ho detto niente…

Dopo un anno il quadro era finito, ed era splendido.

Decisero di esporlo al matrimonio di Cecilia e di Guglielmo, il ragazzo che era riuscito a cambiare la fanciulla.

 

La Venere addormentata, Giorgione

Io ho scelto di riscrivere la storia della cosiddetta “Venere dormiente”, dipinta da Giorgione nel 1507-1510.

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di Kimberly Mena

Ero seduta di fronte alla mia casetta di campagna, tranquilla vedevo il paesaggio e aspettavo la pioggia. Faceva molto caldo e non vedevo l’ora di sentire il picchiettio della pioggia rinfrescante che cade. Dopo tanto aspettare, mi alzai e iniziai a raccogliere i frutti del mio giardino. Poco dopo, si scurì e andai a dormire. Molta gente passava vicino a casa mia, ma mi ero affezionata a un pittore, lui era molto dolce con me e ogni volta che passava nelle vicinanze della mia casa, gli offrivo o dell’acqua o della frutta appena raccolta. Lui ne era felice e si notava, per me era un semplice amico ma non mi sarebbe dispiaciuto se fossimo stati altro. Veniva, perlopiù, per dipingere il bellissimo paesaggio di fronte casa mia e per gli esotici animali. Quella notte cadde la pioggia e rinfrescò ogni cosa: vivevo da sola in una casa moderatamente grande, i miei genitori se ne erano andati in un altro paesello a vivere da soli, così sarei potuta diventare indipendente; avevo appena compiuto sedici anni e un uomo doveva prendersi cura di me.

Erano trascorsi due giorni e “il pittore” non era ancora venuto mentre io lo aspettavo. Lo chiamavano Giorgione, i suoi genitori erano morti di un male misterioso, ma lui non approfondiva mai l’argomento. Mi accorgevo che al toccare quella conversazione diventava triste, silenzioso e malinconico. Aveva quasi trent’anni e la sua passione per la pittura era iniziata da piccolo. Dopo tanto aspettare, ritornò a casa mia. Mi si illuminarono gli occhi, gli corsi incontro e gli chiesi per quale ragione non fosse piu passato, lui rimase in silenzio. Gli chiesi il perché di nuovo e solo abbassò la testa e disse che i soldi per la casa non bastavano e se non avesse dipinto un’opera che sarebbe diventata celebre avrebbe dovuto cambiare città.

Mi venne da piangere ma solo dissi, “se te ne vai sei morto per me” ed entrai in casa piangendo. Passarono i giorni ed ero stanca di aspettare, pensai che se ne fosse andato. Era una giornata nuvolosa e aspettavo la pioggia che ancora non era caduta. Mi sentii accaldata e mi tolsi i vestiti, già che non passava nessuno. Stesi sul prato un telo bianco e un cuscino coperto da un drappo rosso per potermi sdraiare. Mi venne molto sonno e decisi di addormentarmi per un’oretta. Mi svegliai e vidi Giorgione con una tela davanti mentre finiva il suo dipinto. Appena lo vidi mi alzai imbarazzata e mi coprii, andai verso di lui per dargli uno schiaffo ma lui mi fermò e cercò di spiegare mentre il sole calava. Dopo essermi calmata, mi sedetti e iniziammo a parlare del suo trasferimento e gli dissi che mi mancava e mi sarebbe mancato. Lui mi disse che se avesse venduto quel suo quadro non avrebbe dovuto trasferirsi. Dopo quella chiacchierata il giorno dopo passò e mi disse tutto quello che provava per me ed io anche e ufficialmente ci fidanzammo. Pochi giorni dopo riuscì a vendere il quadro per molti denari ma decise di lasciare la sua casa e venire a vivere insieme a me e mettere il denaro da parte per un futuro insieme.

 

 

Voglio guardare con gli occhi di chi non vede 

di Jillian Mallegni

Prima settimana di Università, fin qui tutto bene. Il mio unico problema è che non sono ancora riuscito a memorizzare come sono distribuite le aule.
Per questo sono fuori dalla mia stanza appoggiato allo stipite. Aspetto Johnny, il mio compagno di stanza. Diciamo che è una persona un po’ ritardataria, anzi, un po’ tanto. Ad ogni modo, non vedo l’ora di cominciare come si deve il mio percorso di studi. Potrò sembrare un secchione, la realtà è che ho un grande bisogno di sentirmi utile e aiutare le persone.
Dopo i miei continui lamenti, Johnny si degna di uscire dalla stanza.
-Dai, non ci ho messo così tanto.- sdrammatizza. Lo guardo male.
-Non guardarmi così, Luke, lo sai che mi fai paura.-
-Prima o poi troveranno il tuo cadavere sepolto da qualche parte.-
-E il tuo con il mio. Non potresti continuare a vivere senza di me. – afferma convinto.
Sollevo  il sopracciglio e chiudo la porta con troppa forza.
Percorriamo vari corridoi, mentre il mio cervello continua a creare una mappa dell’università. Dopo i racconti di questo rompipalle, finalmente posso entrare nella mia aula.

Ci incontriamo a pranzo nella mensa e con Johnny ci sono Ashley e Robert, ci sediamo a  un tavolo in fondo alla sala dove c’è un po’ meno caos. Mentre faccio finta di ascoltare i miei amici, perso nei miei pensieri, noto un ragazzo vestito di nero che porta un paio di occhiali e tiene un bastone in una mano.
Ashley nota che non sto ascoltando nemmeno un parola, quindi si volta verso il ragazzo che ha attirato la mia attenzione. Fa un sorriso e si alza incamminandosi verso di lui, lo prende a braccetto e lo porta al tavolo.
-Chi c’è? –
-Allora, alla tua destra c’è Johnny, Robert davanti a te e accanto a lui la piccola matricola, Luke. –
-Ehi, sono il più alto qua, e poi piccola matricola suona male.- metto il broncio come i bambini e tutti tranne il ragazzo del quale non conosco ancora il nome si mettono a ridere.
Finisco di mangiare e dopo aver salutato tutti mi incammino verso la mia stanza.
Apro velocemente la porta e me la chiudo dietro con un calcio. Ho cominciato da poco e sono già sommerso di cose da studiare. Le mie lezioni pomeridiane cominciano alle tre e mezza e ho poco più di un’ora per portarmi avanti con lo studio.

Esco dall’ultima lezione alle sei e mezza, sono stanco morto.
Vado direttamente in camera nella speranza di potermi riposare un pochino per poi cominciare a studiare di nuovo in santa pace. Il mio desiderio viene infranto appena mi avvicino alla mia camera e sento il rumore della musica uscire a volume troppo alto.
Entro e nella stanza ci sono Johnny e i suo amici del quarto anno, stanno fumando, l’odore dolce della cannabis mi invade le narici.
Abbasso di colpo la musica e tutti si lamentano.
-Calma, ora me ne vado. Johnny, volevo solo dirti che mangio fuori e torno tardi, se ci sono problemi chiamami.-
-Che dolce che sei, peccato che non sono gay, ti bacerei in questo momento.-
-Sì, dai, ciao bel principe.-
-Oh sì, ci sposeremo.-
Rimetto il volume della  musica al massimo e dopo aver lasciato qualche libro e averne presi altri, esco lasciando quei pazzi a ridere.
Il ristorante dista una decina di minuti dall’università, dopo penso che andrò al parco a studiare.
Dopo aver ritirato la mia ordinazione mi dirigo lentamente verso il parco. Mi fermo ad un semaforo mentre aspetto che torni verde.
-Cosa ci fai a quest’ora in giro, Luke? Non è tardi per una piccola matricola?-
Mi spavento e quando mi volto vedo Zackary. Alla fine ho scoperto il suo nome.
-Mi hai fatto spaventare, Zackary. Come facevi a sapere che ero io?-
Sono abbastanza curioso, cioè cavolo, non ho neppure parlato.
-Hai un odore particolare.-
-Cosa?-  Ma è serio?
-È verde, dobbiamo attraversare.-
Attraversiamo in silenzio.
-Io vado a al parco, devo studiare.-
-Pure io vado al parco.-
Percorriamo il tragitto fino al parco in completo silenzio e mi ritrovo a seguire Zackary mentre cammina come se davvero riuscisse a vedere. Dopo aver percorso il sentiero si ferma a un tavolo da picnic.
-Io di solito mi fermo qua, se vuoi puoi stare con me. Sennò puoi anche cambiare tavolo, fai come preferisci.-
-No, ti faccio compagnia.-
Ci sediamo ed entrambi cominciamo a fare quello che ci spetta. Comincio a mangiare piano mentre alterno un boccone di cibo a un pezzo del testo da studiare. È strano vedere un ragazzo alle sette di sera con gli occhiali da sole. Mi fermo qualche secondo a guadarlo, è buffo. Il capelli mossi scuri gli cadono sulla fronte, quella faccia concentrata e la testa china come se stesse veramente leggendo con gli occhi, solo quel dito lo inganna. Un semplice ragazzo che sta in un parco a studiare, con il semplice particolare che legge con un dito.
-Hai finito di guardarmi?-
-Cosa? Come facevi a sapere che ti stavo guardando?-
-Semplice. Tu stai mangiando, leggendo e scrivendo su un quaderno, o stai facendo qualcosa con la matita. Ad un certo punto hai smesso di masticare e il rumore della matita è cessato. Presumo che tu mi stia guardando visto che il parco è abbastanza vuoto a quest’ora e da questo lato, dimmi se sbaglio. Io sono una persona nuova da conoscere e il fatto che sono cieco ispira di più la tua curiosità, mi sembri un ragazzo intelligente, sì, mi ispiri fiducia, ma se vuoi usarmi come un giocattolo non ci sto.-
-Cavolo, sei molto intuitivo. Scusa se mi sono soffermato a guardarti per troppo tempo, non volevo darti un’impressione sbagliata. –
-Posso guardarti, Luke?-
Non riesco a capire la sua domanda, e il motivo per il quale l’ha fatta proprio in questo momento, ma gli rispondo di sì, così si alza e passo passo si avvicina e si siede vicino a me. Siamo uno di fronte all’altro. Alza quasi titubante il braccio e cerca il mio viso. Appoggia i polpastrelli alla mia guancia. Dopo aver sfiorato quella piccola parte, appoggia pure l’altra mano  sul mio viso e comincia ad analizzare ogni singolo millimetro del mio volto.
Lascia cadere le mani lungo i fianchi, si alza e dopo aver raccolto tutte le sue cose se ne va lasciandomi con un grazie e con una buonanotte.
Sto riflettendo molto su tutto quello che mi è successo in questi pochi minuti. Voglio conoscere meglio Zackary e riuscire a trovare un modo per ridargli quello che ha perso.
Voglio diventare i suoi occhi, un modo per vedere il mondo.

Nei giorni, le settimane e i mesi a seguire cerco di imparare tutto quello che posso da lui.
Le persone cieche riescono a vedere le cose in modo completamente diverso dal nostro. Vedono le cose profonde, non si fermano all’apparenza. Riescono a percepire ogni singola inclinazione della voce, il cambio dello stato d’animo o come bisogna comportarsi in ogni singolo momento. Almeno Zacky è fatto così.
Notano le piccole cose. Le cose essenziali per tutto.
Io volevo diventare come loro.
Voglio riuscire a  vedere il mondo con gli occhi di chi non vede.
Così conobbi un mondo completamente diverso.

-Come hai perso la vista?-
Alza un sopracciglio e poi vedo per un millisecondo gli angoli della sua bocca andare verso l’alto.
-Stavo aspettando questa domanda da tempo. Devo dire che non mi aspettavo ci avresti messo così tanto per farmela. Ad ogni modo, se ti stai chiedendo se sono cieco dalla nascita, no. Ho perso la vista due anni fa. Anzi ad essere corretti, quasi tre anni fa. Il distacco della retina ha causato la mia cecità. Ce ne siamo accorti troppo tardi e non c’è stato nulla da fare.-
-E come descriveresti il cambiamento che hai dovuto affrontare da vedente a non vedente?-
-Stai lavorando ancora al giornale della scuola?-
-Sì.- non so se si arrabbierà, ma sapere le cose direttamente da lui potrebbe rendere il mio pezzo unico.
-Potevi dirmelo subito. Allora, con il pezzo diventerò famoso?-
L’ha presa bene, dai.
-Mi aiuterai?-
-Certo, mio caro amico reporter.-
-Allora riesci a raccontarmi meglio la tua storia? Non voglio sapere come hai perso la vista. La storia della tua vita. Parlami di Zacky.- accendo il registratore per non perdere neppure una parola.
-Okay, allora, da cosa cominciare? Ho due fratelli, un mamma bellissima e un padre troppo occupato a lavorare. Ho 24 anni e anche se sono cieco, e può suonare strano, studio arte all’università. Ero molto bravo a disegnare, soprattutto a fare ritratti. Ora principalmente mi sto concentrando a studiare la storia dell’arte, non posso più disegnare come facevo prima. Creerei solo figure astratte che non rispecchiano per niente la mia personalità. Sono una persona precisa e amo l’ordine. Questo fu un punto a mio favore quando persi la vista. Essendo un persona ordinata sono sempre riuscito ad orientami e non ho avuto problemi per quanto riguarda la mia stanza, i corridoi e le aule dell’università, non è stato difficile imparare le distanze tra i  banchi e le sedie e il resto. Volevo cambiare il mio ambito di studi, non pensavo che avrei potuto essere un artista senza riuscire a vedere, ma mi sbagliavo. Il mio professore di arte mi fece capire che un artista cieco è raro e che se volevo far conoscere le mie opere dovevo andare avanti e non fermarmi a questa difficoltà, ma, anzi, sfruttare la cosa a mio vantaggio. Così nella mia testa si presentò l’idea di poter insegnare l’arte come la vedo io. –
-E come la vedi tu?-
-Come uno dei mezzi migliori per uscire vivi da tutta questa merda che ci troviamo intorno ogni giorno. Solo che non tutti prendono sul serio l’arte e la considerano un bel passatempo, si sbagliano. Ci sono un sacco di stili nell’arte ognuno di questi può venirci in aiuto in un modo o nell’altro, bisogna solo capire come.-

Voglio trovare la mia arte. Voglio trovare la mia salvezza.
Zacky parla del so handicap come una delle cose che più gli sono state utili nella vita. Quando gli chiedo il perché mi risponde con una semplicissima frase che mi entra dentro e si va a nascondere in qualche posto dal quale non riuscirò più a estrarla.
La cecità mi ha salvato da una vita superficiale e senza una ragione per cui lottare.
La cecità lo aveva salvato da una vita monotona e senza senso. Mi sono reso conto che la monotonia mi stava togliendo tutto quello che aveva Zacky. Mi stava risucchiando in un vortice mortifero e doloroso.

Ad ogni azione corrisponde una azione uguale e contraria.

Non ho mai capito questa frase fino in fondo. Penso che non la capirò mai fino in fondo.
Ho provato con gli strumenti musicali, con il canto. L’azione uguale e contraria? Sono stonato e non portato per gli strumenti principalmente usati nel genere di musica che ascolto.
Ho incontrato il pianoforte però. Azione uguale e contraria? Ho trovato la mia arte. Non so se si può dire che sia un’azione uguale e contraria, ma sono riuscito a trovare la mia salvezza da questa vita superficiale e senza una ragione per cui lottare.

-Mio padre non ha mai voluto che io studiassi arte. Almeno uno della famiglia doveva portare avanti la tradizione e lavorare nell’azienda di famiglia. I miei fratelli sono scappati di casa ed essendo gemelli ai 18 sono volati in Spagna da mia nonna. Mia madre non voleva che facessi le cose per obbligo e mi ha sempre appoggiato. Quando ho perso la vista per lei dovevo tornare a casa e non fare nulla. Non l’ha presa bene all’inizio ma adesso ha capito che sono una persona come tutte le altre e che posso portare avanti una vita normale. I miei fratelli mi hanno fatto visita qualche volta, e si sono preoccupati, non eccessivamente come mia madre ma lo hanno fatto. –
-Tuo padre?-
-Beh, lui, non lo so, pensa che adesso diventerò un fallito. La verità è che il fallito è lui. Il lavoro e la routine lo hanno portato ad essere un persona con la mentalità chiusa e il cuore duro.-

Le persone si migliorano spesso, è quello che ho cercato di fare io. Ho trovato la mia arte e sto imparando a capire il  corpo di ogni singola persona più a fondo e a usare le mie capacità per aiutarle.
Il mio rapporto con Zack cresce e diventa ogni giorno più forte, ora è mio amico.
Sono riuscito a spronarlo a farsi dei nuovi amici, domani ha un appuntamento con una certa Jennifer. Sono molto contento per lui, sarà un ottimo cavaliere.
Sono contento anche per me.
Finalmente guardo il mondo con gli occhi di chi non vede.